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230-259 CANTO II 35

230Bordaglia, gente frolla, Achivi non piú, bensí Achive,
sopra le navi a casa torniamo, e lasciamo costui
che digerisca in Troia i doni ch’egli ebbe; e che veda
se noi di qualche aiuto gli siamo, oppur no. Ché pur ora
Achille egli privò d’onore, che tanto migliore
235era di lui, per forza gli tolse il suo dono, e lo tenne.
Ma pure Achille, no, non ha fegato, è un cuore infingardo;
se no, questo era, figlio d’Atrèo, per te l’ultimo giorno».
     Queste parole Tersíte diceva, a insultare l’Atríde.
Ma presto a lui vicino Ulisse divino si fece,
240e bieco lo guardò, lo investí con amare parole:
     «Tersíte, ch’ài pur voce squillante, ma sciocca parola,
chétati, e non volere, tu solo, rissare coi prenci.
Io dico che di te non c’è verun uomo piú tristo
fra quanti son venuti sotto Ilio, col figlio d’Atrèo.
245Perciò non ti sciacquare la bocca, parlando dei prenci,
non li coprire d’ingiurie, cercando che a casa si torni.
Noi non sappiamo bene che fine avrà questa ventura,
se bene oppure è male che tornino i figli d’Acaia.
Ma questo ora ti dico, che certo compiuto vedrai:
250se ancor ti troverò, che tu faccia, come ora, lo stolto,
piú rimanere non debba sul tronco ad Ulisse la testa,
niuno mi debba piú chiamar di Telèmaco padre,
se io non ti ghermisco, ti strappo di dosso le vesti,
la tunica e il mantello, con cui le vergogne nascondi,
255e ti rimando cosí, piangente, alle rapide navi,
lungi dall’assemblea, segnato di sconce percosse».
     Detto cosí, gli vibrò su le spalle e la schiena lo scettro.
E quegli si curvò, gli sgorgarono lagrime fitte,
e un livido sanguigno gli apparve sul dorso, pel colpo