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4 iliade 20-49

20Ma or la figlia mia liberate, e i miei doni gradite,
e rispettate Apollo, l’arciero figliuolo di Giove».
     E qui gridaron tutti gli Achei, che prestar si dovesse
al sacerdote onore, gradirne i bellissimi doni.
Solo contento non fu dell’Atríde magnanimo il cuore;
25anzi via lo scacciò, soggiunse parole superbe:
     «Ch’io non ti colga piú mai vicino alle navi, o vecchiardo,
né or, se v’indugiassi, né poi, se tornassi: ché schermo
non ti sarebbero allora le bende e lo scettro del Nume.
Libera io non farò tua figlia: ché prima, vecchiaia
30cogliere in casa mia la deve, lontan dalla patria,
in Argo, al letto mio compagna, ed intenta al telaio.
Or va, né m’irritare, se vuoi ritornar sano e salvo».
     Cosí disse. Obbedí, sgomento a quei detti, il vegliardo,
e muto andò lunghessa la riva del mare sonante;
35e molte preci poi, venuto in disparte, innalzava
al figlio di Latona dai fulgidi crini, ad Apollo:
     «Odimi, o re dall’arco d’argento, che Crisa proteggi,
la Santa Cilla, e sei di Tènedo salda signore,
odi, o Smintèo. Se mai di fiori ho velato il tuo tempio,
40se mai, per farti onore, di capre e di tori su l’ara
t’ho pingui cosce bruciate, compiscimi questa preghiera:
faccian le tue saette ai Dànai scontare il mio pianto».
     Queste parole disse di prece. L’udí Febo Apollo,
e dalle vette scese d’Olimpo, col cruccio nel cuore,
45e su le spalle l’arco reggeva, e la chiusa faretra;
e mentre egli adirato moveva, sugli omeri a lui
squillavano le frecce: scendeva, pareva una notte.
Lungi ancor dalle navi ristava, lanciava uno strale;
e orrendo si levò clangore dall’arco d’argento.