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PREFAZIONE XLIII


E come avviene nel Caucaso, nella Nigrizia, o in America, dove tuttora innumerevoli tribù isolate parlano innumerevoli lingue1, cosí dové avvenire, e nella Grecia continentale, e nell’Asia Minore, regioni che sembrano quasi predisposte da natura allo sviluppo d’un simile processo: quella divisa in tante piccole valli, o, come le chiamava il Calvello2, canestri; quelle divise anch’esse, dalla configurazione geografica, in lunghe valli tagliate da fiumi profondi.

Esisté, dunque, una gran molteplicità di lingue aborigene. E su tutte corse, ad assimilarle, e ad unificarle, sino a renderle quasi proprî dialetti, la lingua indo-europea, dei popoli del mare. E nacque il greco, che accolse dunque elementi verbali di tutte le civiltà che, per una via o per l’altra, direttamente o indirettamente, erano giunte al bacino del Mediterraneo, fondendoli in una sostanza omogenea con la misteriosa virtù molecolare, infinitamente energètica, del diamante, che amalgama tutti i colori dell’iride, annullandoli nel proprio candore, e riverberandoli insieme da tutte le sue cuspidi. A questo carattere eminentemente sintetico, deve forse il greco il suo fàscino profondo. Perfino i glottologi ne parlano con tòno ditirambico. «Questa lingua, dice il Glotz, è d’essenza divina: quando una volta se n’è gustato il sapore, ogni altra lingua diviene insipida e amara».

Ma a che punto era il processo d’unificazione, quando Omero cantava? E in che rapporto si trovò dunque la lingua

  1. In America, dieci milioni di uomini parlano cinquecento lingue. — Queste condizioni esistevano al tempo del Cattaneo. Non so se ora siano mutate; ma importa poco.
  2. Citato dal Torraca, in Saggi e Rassegne, pag. 442.