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290-319 CANTO XII 285

290frante dell’alto muro le porte e la solida sbarra,
se Giove non lanciava Sarpèdone, il proprio figliuolo,
contro gli Achivi; e parve leone su lucidi bovi.
Súbito a sé dinanzi lo scudo librato egli pose,
bello, di bronzo, foggiato coi màllei. Battuto l’aveva
295un fabbro: entro cucite v’avea fitte pelli di bovi;
e verghe d’oro, all’orlo correvano via torno torno:
fattosi schermo di questo, due lance vibrando, si mosse,
come leone cresciuto fra i monti, digiuno di carne
già da gran tempo: lo spinge l’intrepido cuore a far preda
300di greggi, anche se deve balzare in un saldo recinto:
ché, pur, se, giunto qui, trovasse sul luogo i pastori
che con le lance stanno, coi cani, a far guardia alle greggi,
lungi però, se prima non tenta, non va dall’ovile,
ma con un balzo dentro si lancia e fa preda; o ferito
305cade alla prima egli stesso, colpíto da mani veloci.
Cosí l’animo fiero spronò quel divino campione,
che sovra il muro balzasse, che i merli frangesse; e all’istante
queste parole a Glauco, d’Ippòloco al figlio, rivolse:
«Glauco, perché nella Licia noi due piú d’ogni altro onorati
310siamo, che i posti eletti abbiam nei banchetti, e le carni,
colme le coppe, e tutti ci onorano al pari dei Numi,
e gran poderi abbiamo lunghesse le rive del Xanto,
dove frutteti, dove son campi di grano fecondi?
Ora convien che primi, in mezzo alle schiere dei Lici,
315stiamo, a pie’ fermo affrontiamo, dov’essa piú arde, la zuffa,
perché dica qualcuno dei Lici dal solido usbergo:
— No, senza gloria i re non sono, che in Licia l’impero
stendono sopra noi, che mangian le floride greggi,
bevono il vino eletto di miele: ché pure è ben grande