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PREFAZIONE XXXV

campo, mentre una donna, desolata per la loro partenza, si batte le mani sul capo.

E, infine, invano si cercherebbe in queste figurazioni la più lontana traccia d’orientalismo. Qualunque sia il giudizio assoluto sulla loro entità artistica, la loro originalità è indiscutibile.

Come dovremo chiamare quest’arte? Il nome importa fino ad un certo punto. Ma io credo che i titoli della sua nobiltà risalgano ad epoca molto remota. Essa è, credo, la primitiva arte pelasgica, che, sotto le varie alluvioni che ne commuovono e turbano la superficie, continua un suo lentissimo omogeneo corso profondo. Le varie arti d’importazione aprono rapidamente fiori brillanti ed effimeri: essa, pure accogliendo da ciascuna di quelle, con prudentissimo assorbimento, gli elementi che le giovano, solo per la infinita virtù insita in un proprio germe originario, compie il suo tardissimo sviluppo prodigioso, onde, da questi rozzi incunaboli, arriva, per tappe in gran parte documentate, alle pitture di Polignoto, alle sculture di Fidia e di Prassitele.

Se questa analisi è giusta, noi dobbiamo modificare profondamente le nostre idee sull’arte e sulla civiltà micenaica.

L’opinione prevalente, infatti, è tuttora, su per giú, quella sostenuta dal Perrot1: che fosse la diffusione, sul continente ellenico, della civiltà cretese. E fosse ricca di centri industriali, dove, sotto la protezione di principi opulenti e amici del lusso, avrebbero lavorato gruppi d’artisti che si tramandavano, di padre in figlio, i segreti del mestiere. E le opere di queste officine si sarebbero diffuse, non solamente per tutta la Grecia, bensí anche in contrade lontane, e massime nell’Egitto.

  1. Op. cit., VI. Cosí anche il Baumgarten.