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527-556 CANTO XI 261

lo riconosco al grande palvese ch’egli ha su le spalle.
Presto, cavalli e carri spingiamo anche noi, dove fieri
piú, cavalieri e fanti s’accozzano in fiera battaglia,
530gli uni facendo strage degli altri, né il grido mai cessa».
     Detto cosí, vibrò sui cavalli dal lucido crine
la sibilante sferza. I colpi sentirono quelli,
ed il veloce carro framezzo ai Troiani e agli Achivi
trassero, calpestando cadaveri e cocchi; e di sangue
535era macchiato l’asse di sotto, e del carro le sponde:
ché dei cavalli dall’unghia volavano spruzzi, e dai cerchi
delle volanti ruote. Correva ei, d’irromper bramoso
sopra le turbe, dentro, cacciarsi e spezzarle; e scompiglio
tristo gittò fra i Dànai, ché posa alla lancia non dava.
540Ei percorreva dunque le schiere degli altri guerrieri,
l’asta vibrando, la lancia, scagliando immani macigni:
però del Telamonio, d’Aiace, schivava l’incontro:
ché s’adirava Giove quando egli affrontava un piú forte.
E Giove suscitò sgomento nel cuore d’Aiace.
545Stie’ sbigottito, gittò su le spalle lo scudo di cuoio,
e si ritrasse, girando lo sguardo: pareva una fiera,
passo alternando a passo, pian piano, volgendosi indietro.
Come leone fulvo, lontan da la stalla dei bovi
scaccian sovente a furia le genti dei campi ed i cani,
550né gli permetton che faccia bottino del grosso dei bovi,
svegli restando tutta la notte; e bramoso di carne
quello si slancia; ma nulla consegue, ché fitte zagaglie
contro gli vengon lanciate da mani gagliarde, e fastelli
di legna ardenti, ch’egli, per quanto feroce, paventa:
555poi si ritira, all’alba, lontano, e tristezza lo invade:
tristo del pari, Aiace piegava lontan dai Troiani,

Omero - Iliade, I - 17