nel destro piede, al tarso. Fuor fuori passando la punta,
a terra si ficcò. Levando alto riso di gioia,
fuor dall’agguato quegli proruppe, e, vantandosi, disse: 380«Colpito sei, ché vana la freccia non fu: giú nel ventre
preso cosí t’avessi, t’avessi levata la vita!
Tratto un respiro avrebber tra i loro malanni i Troiani,
che te paventan, come le capre belanti, un leone».
E a lui, senza sgomento, rispose cosí Dïomede: 385«Arciere, uomo da nulla, che bello d’un arco ti fai,
bel vagheggino, se tu ti provassi con me faccia a faccia,
non ti darebbero aiuto né l’arco né i molti tuoi dardi.
Tanto, perché tu m’hai scalfito nel tarso, ti vanti?
Io me ne curo come se un bimbo colpito m’avesse, 390senza criterio, o una donna: ché vana è la freccia d’un uomo
fiacco ed imbelle. Ben altro, per poco che imbrocchi, il mio dardo
m’esce di mano; e chi colpí, leva presto di vita,
la donna sua si deve graffiare, nel lutto, le guance,
orfani i figli; ed esso, col sangue arrossando la terra, 395imputridisce; e gli vanno piú corvi che femmine, attorno».
Cosí diceva. E Ulisse, venutogli presso, dinanzi
gli stette; e dietro a lui sedendo, la freccia il Tidíde
dal piede estrasse. Corse le carni uno spasimo orrendo.
Ond’ei balzò sul cocchio, rivolse comando all’auriga 400che lo recasse verso le navi: ché troppo era affranto.
E restò solo Ulisse, maestro di lancia, né presso
piú degli Achivi alcuno: fuggiti eran tutti sgomenti.
E questo allora disse, crucciato, al magnanimo cuore:
«Povero me, che farò? Gran malanno sarà, se sgomento 405fuggo dinanzi alla turba; ma peggio sarà, se qui solo
mi coglieranno, or che in fuga sbandò gli altri Dànai Giove.