Pagina:Iliade (Romagnoli) I.djvu/220

350-379 CANTO VII 165

350Su’, dunque, Elena argiva si renda, con tutti i suoi beni,
che se la portin gli Atridi. Ché or, nella pugna, spergiuri
noi combattiamo: per questo giammai non avremo il vantaggio».
     Come ebbe detto ciò, sedette. E il divino Alessandro,
d’Elena chioma bella lo sposo, allor surse fra loro;
355e a lui cosí rispose, parlò queste alate parole:
«Le tue parole a me non furono, Antènore, grate.
Certo potresti dire parole migliori di queste.
Se poi quello ch’ài detto, l’hai detto davvero, sul serio,
allora sí, che i Numi t’avranno levato di senno!
360Ma voglio tuttavia parlare ai guerrieri troiani,
e senza ambagi dico: non restituisco la donna;
ma i beni, quanti d’Argo ne addussi alla casa paterna,
restituire tutti li voglio, ed aggiunger del mio».
     Com’ebbe detto ciò, sedette. E successe a parlare
365Priamo, di Dàrdano figlio, l’uguale dei Numi per senno.
Esso, pensando al bene, parlò, disse queste parole:
«Udite, voi, Troiani, voi Dàrdani, e genti alleate,
ché udir possiate quello che il cuore m’impone ch’io dica.
Or, come al solito, dentro le mura, si pensi alla cena,
370e si provveda alla guardia, ché ognuno sia vigile e desto.
Domani, all’alba, Idèo si rechi alle concave navi,
e dica ai due figliuoli d’Atrèo, condottieri di turbe,
quanto propone Alessandro, che origine fu della guerra.
Ed anche questa saggia proposta si faccia: che tregua
375ora si ponga all’orrendo frastuono di guerra, sin quando
arse le salme abbiamo. Sarà poi ripresa la guerra,
sin che decida un Nume di chi pur sarà la vittoria».
     Cosí diceva. E tutti l’udirono, e dieder consenso.
Fecero quindi, a schiere nel campo divisi, la cena.