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150 | ILIADE | 488-514 |
Né troppo a lungo indugiava nell’alta magione Alessandro.
Anzi, poiché le belle armi di bronzo ad intarsi ebbe cinte,
500traverso la città si lanciò sui piedi veloci,
come un cavallo, d’orzo pasciuto al presepe e rinchiuso,
uso a tuffare le membra nell’ampia corrente del fiume,
che, quando i lacci spezzò, scalpitando si lancia sul piano,
fiero, tenendo pur erta la testa: d’attorno, sul dorso
505balzano i crini; e, ratte, lo portano via le ginocchia,
conscio di sua beltà, dove pascono gli altri corsieri.
Paride similemente, di Pèrgamo via per la rocca,
tutto fulgente nell’armi correa, come un sole, e levava
alte le grida, portandolo i piedi veloci; e d’un tratto,
510Ettore, il prode fratello raggiunse, che appunto dal luogo
si distaccava dove parlato egli avea con la sposa.
Primo Alessandro, che un Nume sembrava, lo vide, e gli disse:
«Caro fratello, troppo tardare ti fo, quando hai fretta:
ché m’indugiai, né, come volevi, qui subito giunsi».
515Ettore, il prode dall’elmo fulgente, cosí gli rispose:
«Fratello mio, nessuno, pur ch’egli sia giusto, potrebbe
biasimo darti nell’opre di guerra: ché sei valoroso.
Ma, come puoi, t’abbandoni, volere non sai: sí che tutto
mi duole il cuor, se ascolto di che vitupèri coprirti
520usa la gente di Troia, che tanto per te si travaglia.
Ora si vada: ché ammenda faremo di tutto, se un giorno
Giove conceda che ai Numi del ciel sempiterno si possa
dentro le case libare la coppa dei liberi giorni,
dopo scacciati gli Achivi guerrieri dal suolo di Troia».