Pagina:Iliade (Romagnoli) I.djvu/200

338-367 CANTO VI 145

non come questo, sordo degli uomini al biasimo e all’onta!
Saldo volere questi non ha, né sarà mai che l’abbia
350per l’avvenire; e un giorno dovrà ben pagarne la pena!
Ma dunque, entra, su’ via, su questo sgabello ti siedi,
cognato mio, ché piú d’ogni altro te grava il travaglio,
cagna ch’io sono, per me, d’Alessandro pel tristo destino:
ché Giove sopra noi volle infitta la sorte malvagia,
355ché noi fossimo oggetto di canto alle genti future».
     Ettore, il prode dall’elmo lucente, cosí le rispose:
«Elena, pur se ti preme di me, non mi chieder ch’io segga.
Non m’indurresti: ché il cuore mi sprona ch’io corra al soccorso
dei miei guerrier, che molto mi bramano, ed io sono lungi.
360Scuoti bensí costui, s’affretti egli stesso ad armarsi,
sí che raggiungermi possa mentre io sono ancor fra le mura.
Io vado intanto a casa, ché voglio vedere i miei cari,
la prediletta sposa, col pargolo infante: ché ignoro
se dalla pugna ad essi potrò ritornare, o se i Numi
365spento mi vogliano oggi sottesse le man’ degli Achivi». —
     Dette queste parole, l’eroe dal fulgente cimiero,
Ettore, mosse: e alla bella sua casa in un attimo giunse.
Ma non trovò nelle stanze la sposa dal candido braccio:
ch’essa col bimbo e l’ancella dal peplo fulgente, recata
370s’era alla torre, e lí, piangeva, levava lamenti.
Ettore, poi che in casa non trovò la pura sua sposa,
sopra la soglia i passi fermò, si rivolse alle ancelle:
«Donne, di casa, andiamo, sapete di Andromaca dirmi,
sicuramente dove si trovi? Ch’è fuor della casa.
375Dalle cognate è andata fors’ella, o nel tempio d’Atena,
dove la Dea tremenda imploran le donne di Troia?». —
     La dispensiera fida con queste parole rispose:

Omero - Iliade, I - io