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4io-438 CANTO V 113

410e ch’Egelèa non debba, la saggia figliuola d’Adrasto,
balzar dal sonno, i suoi famigli destar coi suoi pianti,
piangendo il caro sposo, di tutti gli Achivi il piú forte,
la generosa consorte del pro’ cavalier Dïomede!».
     Cosí disse. E con ambe le mani tergea dalla palma
415l’ícore; e fu guarita la palma, lenito il dolore.
     E Atena ed Era poi, che stavano entrambe a guardare,
volsero a Giove, figlio di Crono, mordaci parole.
E favellò per prima la Diva occhicerula Atena:
«T’adirerai, Giove padre, di quello ch’io sono per dirti?
420Cípride certo qualcuna spingea delle donne d’Acaia
a seguitare i Troiani che tanto le sono diletti;
e mentre essa a la bella d’Acaia faceva carezze,
ad una fibbia d’oro la tenera mano si punse».
     Cosí diceva. E rise degli uomini il padre e dei Numi,
425e a sé chiamò la Dea tutta oro Afrodite, e le disse:
«Non sono a te concesse, figliuola, le imprese di guerra:
tu dell’amabili nozze rivolgiti, o figlia, alle cure:
Atena, e Marte tutto furor, penseranno a la guerra».
     Cosí, dunque, costoro parlavano l’uno con l’altro;
430e Dïomede, alto grido di guerra, balzava su Enèa,
bene intendendo che Apollo su lui protendeva le mani.
Ma ei, non rispettava neppure il gran Nume, e bramava
sempre d’uccidere Enèa, spogliarlo de l’armi sue belle.
Tre volte si lanciò, bramoso di dargli la morte,
435tre volte il Nume contro gli oppose il suo fulgido scudo.
Ma quando si lanciò la quarta, che un Nume sembrava,
gli disse il Dio che lungi saetta, con orrido grido:
«Rientra in te, Tidíde, ritirati, e pari ai Celesti

Omero - Iliade, I - 8