380«Tollera, figlia mia, se pure ti crucci, sopporta:
molti di noi, d’Olimpo signori, perché di tormenti
ci strazïamo l’un l’altro, dovemmo soffrir dai mortali.
Marte soffrí, quando Oto gagliardo, e il gagliardo Efïalte
figli d’Alèo, di ceppi lo avvinsero saldi, e legato 385rimase dentro un orcio di rame per tredici mesi.
E qui Marte mai sazio di guerre sarebbe perito,
se la matrigna loro, la bella Eribèa, non ne dava
l’annuncio a Ermète: questi potè trafugare il prigione
già macerato: ché strazio gli dava la dura catena. 390Era soffrí, quando il figlio fortissimo d’Anfitrïone
al manco seno lei colpí con un dardo a tre punte,
ed ella ne patí dolori insoffribili. E Ade,
l’orrendo mostro, anch’egli soffrí per un dardo veloce,
quando lo stesso eroe di Giove figliuol, su le soglie 395dei morti lo colpí, lo lasciò fra cocenti dolori.
Esso alla casa andò di Giove, alla cima d’Olimpo,
crucciato il cuor, trafitto da fieri tormenti: ché il dardo
gli strazïava l’alma, confitto nell’omero saldo.
Peone qui, spalmando la piaga di farmachi leni, 400lo risanò: ché nato non era di stirpe mortale.
Malvagio, sciagurato, che male operar gli piaceva,
che coi suoi dardi i Numi signori d’Olimpo angosciava.
Ed ora contro te l’occhicerula Atena ha lanciato
costui! Stolto! E non sa, non vede il figliuol di Tidèo, 405che lunga vita non gode chi lotta coi Numi immortali,
né su le sue ginocchia gli dicono babbo i suoi figli,
allor ch’ei dalla guerra ritorna e dall’orrida pugna.
E dunque, ora il Tidíde, per grande che sia la sua forza,
ponderi bene, ché alcuno piú saldo di te non lo affronti,