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230-259 CANTO V 107

230sotto la solita mano, piú docili il carro trarranno,
se mai dovremo ancora fuggir Dïomede: ch’io temo
ch’essi sgomenti s’adombrino, indugino, e fuor da la zuffa
piú non ci rechino, quando non odano piú la tua voce,
ed il figliuol di Tidèo, magnanimo cuore, su noi
235piombi, e ci stermini entrambi, ci rubi i veloci cavalli.
I tuoi corsieri, dunque, tu stesso conduci, e il tuo carro:
io l’urto di costui sosterrò con l’aguzza mia lancia».
     Dette queste parole, saliti sul cocchio dipinto,
spinsero contro il Tidíde, furenti, i veloci cavalli.
240Stènelo, di Capanèo bellissimo figlio, li vide,
e tosto favellò queste alate parole al Tidíde:
«O figlio di Tidèo, Dïomede diletto al mio cuore,
io due gagliardi vedo che piomban su te furibondi.
La loro forza è immensa. L’un d'essi è maestro dell’arco:
245Pàndaro; egli si gloria che vita Licàone gli diede.
E l’altro, Enea: d’Anchise, guerriero magnanimo, vanto
mena che nacque; ed è sua madre la Diva Afrodite.
Su via, cerchiamo scampo sul cocchio; né a piedi lanciarti
piú tra le prime file, ché perder non debba la vita».
     250Ma bieco lo guardò, Dïomede, cosí gli rispose:
«Non mi parlar di paura, ché io non t’ascolto di certo.
L’indole mia, non è di schivare i pericoli in guerra,
di sbigottire: in petto ben saldo il vigore mi sento.
Salire sopra il carro, l’ho a noia; ma, pure pedone,
255li affronterò: non vorrà ch’io trepidi Pàllade Atena;
e non potranno i loro veloci corsieri, di nuovo
da noi portarli entrambi lontani, se l’uno pur fugga.
Un’altra cosa poi ti dico, e tu figgila in mente.
Se mai Pallade Atena, la Diva dai molti consigli,