110Strinse agli estremi il nervo, per tenderlo, e a terra lo pose:
gli scudi innanzi, a schermo, tenevano i fidi compagni,
perché su non balzassero i prodi figliuoli d’Acaia,
pria che colpito fosse il figlio d’Atrèo, Menelao.
Dalla faretra, poi, levato il coperchio, uno strale 115ne tolse, alato, nuovo, radice di negri cordogli.
Poscia, quando ebbe adattata sul nervo la freccia funesta,
rivolse a Febo, al licio signor delle cuspidi, il voto
che avrà d’agnelli nati di fresco una insigne ecatombe
quando tornato sarà nella ricca città di Zalèa. 120E strinse, e tese insieme la cocca ed il nervo di cuoio:
a la mammella accostò la corda, la cuspide a l’arco:
ed ecco, quando al pari d’un cerchio fu teso il grande arco,
l’arco fischiò, la corda levò clangore alto, la freccia
cuspide acuta balzò, di volar fra le turbe bramosa. 125Però, di te, Menelao, scordati non s’erano i Numi.
E prima fu la figlia di Giove, la Dea predatrice,
che, stando a te dinanzi, sviò l’amarissimo dardo.
Essa lo tenne lontano da te, come quando una madre
scaccia una mosca dal figlio, che posa in un dolce sopore, 130e lo sviò, lo spinse dov’era da fibule d’oro
stretta la cintola bella, sí ch’ivi era doppio l’usbergo.
L’amaro dardo, qui si piantò, su la stretta cintura;
e traversò la bella cintura fuor fuori, l’usbergo
forò, tutto cosparso di fregi, e la lamina salda 135che il re portava sopra la pelle, riparo dei dardi,
che l’avea spesso salvato; ma fu traversata anche quella
da parte a parte; e il dardo scalfí proprio a sommo la pelle;
e dalla piaga tosto sgorgò, nero e fumido, il sangue.
Come allorché l’avorio di porpora tinge una donna