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XII | PREFAZIONE |
E un assai più fine senso religioso è in questa commossa contemplazione dinanzi al giovanile trepidare del lattonzolo alla mammella, o al piegarsi delle corolle a un alito di vento. È un sostituire all’idolo mostro, l’idolo bellezza, all’orrore l’amore, alla divinità delle tenebre la divinità della luce.
E col trionfo della bellezza, appare, per la prima volta, la gioia. Diecine di secoli sono trascorsi; e la civiltà cretese fu ferocemente distrutta; e già nell’età classica se n’era perduto ogni vestigio: eppure, anche dai resti miserrimi, solo oggi restituiti ai nostri occhi, emana un senso di vita così puro, festoso e sereno, come non si ritrova in nessuna altra epoca della storia. Nell’isola di Creta, la travagliata stirpe degli uomini ha sognato forse il suo sogno più bello.
E quando il sogno fu disperso da un feroce risveglio, nel cuore degli uomini ne rimase una immagine incancellabile. E il poeta dei poeti, Omero, lo riprodusse nei suoi versi immortali.
Perché, non c’è dubbio, io credo, che la pittura dei Feaci non sia un ricordo della beata vita cretese. Le coincidenze fra Omero e le mute ma eloquenti testimonianze dei monumenti, sono troppo numerose e sintomatiche. Quelle gaie figurazioni di vita brillante, consapevole d’ogni agio, vaga di giochi di danze di musiche, quella palese preponderanza della donna e delle sue molli eleganze, quella relativa scarsezza di figurazioni guerresche, trovano il loro perfetto equivalente nelle famose parole di Alcinoo ad Ulisse (Odissea, VIII):
Ché noi pugili insigni non siamo, né saldi alla pugna, |