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v.48 libro ventesimosecondo 239

   Mio diletto figliuolo, Ettore mio,
Deh lontano da’ tuoi da solo a solo
Non affrontar costui che di fortezza50
D’assai t’è sopra. Oh fosse in odio il crudo
Agli Dei quanto a me! Pasto di belve
Ei giacería qui steso (e del mio petto
Avría fine l’angoscia), ei che di tanti
Orbo mi fece valorosi figli,55
Quale ucciso, qual tratto alle remote
Rive e venduto. Ed or fra i qui rinchiusi
Teucri i due figli, ahi lasso! ancor non veggo,
Che l’esimia consorte Laotóe
A me produsse, Polidoro io dico60
E Licaon. Se prigionieri ei sono,
Con auro e bronzo ne farem riscatto,
Ch’io n’ho molte conserve, e molto avere
Diè l’egregio vegliardo Alte alla figlia.
Se poi ne’ regni già passâr di Pluto,65
Alto sarà su la lor morte il pianto
Della madre ed il mio, ma brevi i lutti
Del popolo, ove spento tu non cada
Dal Pelíde, tu pur. Rïentra adunque,
Mio dolce figlio, nelle mura, e i Teucri70
Conservane e le spose. Al diro Achille
Non lasciar sì gran lode: abbi pensiero
Della cara tua vita, abbi pietade
Di me meschino a cui non tolse ancora
La sventura il sentir, di me che misi75
Già nelle soglie di vecchiezza il piede,
Dall’alta condannato ira di Giove
Di ria morte a perir, vista di mali
Prima ogni faccia, trucidati i figli,
Rapite le fanciulle, i casti letti80
Contaminati, crudelmente infranti