Pagina:Iliade (Monti).djvu/562

v.525 libro ventesimoprimo 229

Un macigno afferrò, che negro e grande525
Giacea nel campo dalle prische genti
Posto a confine di poder. Con questo
Colpì l’impetuoso iddio nel collo,
E gli sciolse le membra. Ei cadde, e steso
Ingombrò sette jugeri; le chiome530
Insozzârsi di polve, e orrendamente
L’armi sul corpo gli tonâr. Sorrise
Pallade, e altera l’insultò: Demente!
Che meco ardisci gareggiar, non vedi
Quant’io t’avanzo di valor? Va, sconta535
Di tua madre le furie, e dal suo sdegno
Maggior castigo, dell’aver tradito
Pe’ Teucri infidi i giusti Achei, t’aspetta.
   Così detto, le lucide pupille
Volse altrove. Frattanto al Dio prostrato540
Venere accorse, per la mano il prese,
E lui che grave sospira, e a fatica
Rïaver può gli spirti, altrove adduce.
L’alma Giuno li vide, ed a Minerva,
Guarda, disse, di Giove invitta figlia,545
Guarda quella impudente: ella di nuovo
Fuor dell’aspro conflitto via ne mena
Quell’omicida. Ah vola, e su lor piomba.
   Volò Minerva, e gl’inseguì. Di gioia
Il cor balzava, e fattasi lor sopra,550
Colla terribil mano a Citerea
Tal diè un tocco nel petto che la stese:
Giaceano entrambi riversati, e altera
Su lor Minerva glorïossi, e disse:
   Fosser tutti così questi di Troia555
Proteggitori a disfidar venuti
I loricati Achei! Fossero tutti
Di fermezza e d’ardir pari a Ciprigna