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v.116 libro decimonono 183

D’un caro figlio settimestre. A questo,
Benchè immaturo, accelerò la luce
Giuno, e d’Alcmena prolungando il parto,
Ne represse le doglie. Indi a narrarne
Corse al Saturnio la novella, e disse:120
Giove, t’annunzio che mo’ nacque un prode
Che in Argo impererà, lo Stenelíde,
Tua progenie, Euristéo d’Argo re degno.
   D’alto dolor ferito infurïossi
Giove, e tosto ai capelli Ate afferrando125
Per lo Stige giurò che questa a tutti
Furia dannosa non avría più mai
Riveduto l’Olimpo. E sì dicendo,
La rotò colla destra, e fra’ mortali
Dagli astri la scagliò. Per la costei130
Colpa veggendo di travagli oppresso
Il diletto figliuol sotto Euristéo
Adiravasi Giove. E a me pur anco,
Quando alle navi Ettór struggea gli Achivi,
Lacerava il pensier la rimembranza135
Di questa Diva che mi tolse il senno.
Ma poichè Giove il volle, io vo’ del pari
Farne l’emenda con immensi doni.
Sorgi Achille alla pugna, e gli altri accendi.
Tutto, che ieri nella tenda Ulisse140
Ti promise, io darotti: e se t’aggrada,
L’ardor sospendi che a pugnar ti sprona,
E dal mio legno farò tosto i doni
Recar, che visti placheranti il core.
   Duce de’ prodi glorïoso Atride,145
Rispose Achille, il dar que’ doni a norma
Di tua giustizia o ritenerli, è tutto
Nel tuo poter. Ma tempo non è questo
Da parole: sia d’armi ogni pensiero,