Pagina:Iliade (Monti).djvu/380

v.388 libro decimoquarto 47

Nè Cerere la bionda, nè Latona,
Nè tu stessa giammai, siccome adesso,
Mi destasti d’amor tanto disío.390
   E l’ingannevol Diva: Oh che mai parli,
Importuno! Ascoltar vuoi tu d’amore
Le fantasie qui d’Ida in su le vette
Dove tutto si scorge? E se qualcuno
Degli Dei ne mirasse, e agli altri Eterni395
Conto lo fêsse, rïentrar nel cielo
Con che fronte ardirei? Ciò fôra indegno.
Pur se vera d’amor brama ti punge,
Al talamo n’andiam, che il tuo diletto
Figlio Vulcan ti fabbricò di salde400
Porte; e quivi di me fa il tuo volere.
   Nè d’uom mortale nè d’iddio veruno
Lo sguardo ne vedrà, Giove riprese.
Diffonderotti intorno un’aurea nube
Tal che per essa nè del Sol pur anco405
La vista passerà quantunque acuta.
   Disse, ed in grembo alla consorte il figlio
Di Saturno s’infuse: e l’alma terra
Di sotto germogliò novelle erbette
E il rugiadoso loto e il fior di croco410
E il giacinto, che in alto li reggea
Soffice e folto. Qui corcârsi, e densa
Li ricopriva una dorata nube
Che lucida piovea dolce rugiada.
   Sul Gargaro così queto dormía415
Giove in braccio alla Dea, preda d’amore
E del soave Sonno che veloce
Corse alle navi ad avvisarne il nume
Scotitor della Terra; e a lui venuto,
Con presto favellar, T’affretta, ei disse,420
A soccorrer gli Achivi, o re Nettunno,