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44 iliade v.286

Or n’è d’uopo, e saprotti eterno grado.
Tosto ch’io l’abbia fra mie braccia avvinto,
M’addormenta di Giove, amico Dio,
Le fulgide pupille: ed io d’un seggio
D’auro incorrotto ti farò bel dono,290
Che lavoro sarà maraviglioso
Del mio figlio Vulcan, col suo sgabello
Su cui si posi a mensa il tuo bel piede.
   Saturnia Giuno, veneranda Dea,
Rispose il Sonno, agevolmente io posso295
Ogni altro iddio sopir, ben anche i flutti
Del gran fiume Oceán di tutte cose
Generatore; ma il Saturnio Giove
Nè il toccherò nè il sopirò, se tanto
Non comanda egli stesso. I tuoi medesmi300
Cenni di questo m’assennâr quel giorno
Ch’Ercole il suo gran figlio, Ilio distrutto,
Navigava da Troia. Io su la mente
Dolce mi sparsi dell’Egíoco Giove,
E l’assopii. Tu intanto in tuo segreto305
Macchinando al suo figlio una ruina,
Di fieri venti sollevasti in mare
Una negra procella, e lui svïando
Dal suo cammin, spingesti a Coo, da tutti
I suoi cari lontano. Arse di sdegno310
Destatosi il Tonante, e per l’Olimpo
Scompigliando i Celesti, in cerca andava
Di me fra tutti, e avría dal ciel travolto
Me meschino nel mar, se l’alma Notte,
De’ numi domatrice e de’ mortali,315
Non mi campava fuggitivo. Ei poscia
Per lo rispetto della bruna Diva
Placossi. E salvo da quel rischio appena
Vuoi che con esso a perigliarmi io torni?