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v.790 libro undecimo 283

Sì ch’io pavento, ohimè! che più non abbia790
Scampo l’eroe: correte, circondate
De’ vostri petti il Telamónio figlio.
   Così disse il ferito: e quelli a gara
Stretti inclinando agli omeri gli scudi,
E l’aste sollevando, al grande Aiace795
Si fêr dappresso; ed ei venuto in salvo
Tra’ suoi, di nuovo la terribil faccia
Converse all’inimico. In cotal guisa,
Come fiamma, tra questi ardea la zuffa.
Di sudor molli intanto e polverose800
Le cavalle nelée fuor della pugna
Traean col duce Macaon Nestorre.
Lo vide il divo Achille e lo conobbe,
Mentre ritto si stava in su la poppa
Della sua grande capitana, e il fiero805
Lavor di Marte, e degli Achei mirava
La lagrimosa fuga. Incontanente
Mise un grido, e chiamò dall’alta nave
Il compagno Patróclo: e questi appena
Dalla tenda l’udì, che fuori apparve810
In marzïal sembianza; e dal quel punto
Ebbe inizio fatal la sua sventura.
   Parlò primiero di Menézio il figlio:
A che mi chiami, a che mi brami, Achille?
   O mio diletto nobile Patróclo,815
Gli rispose il Pelíde, or sì che spero
Supplicanti e prostesi a’ miei ginocchi
Veder gli Achivi, chè suprema e dura
Necessità li preme. Or vanne, o caro,
Vanne e chiedi a Nestór chi quel ferito820
Sia, ch’ei ritragge dalla pugna. Il vidi
Ben io da tergo, e Macaon mi parve,
D’Esculapio il figliuol; ma del guerriero