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v.318 libro sesto 153

Avvenente e gentil. Chiamollo a nome,
E strettolo per mano: O figlio, disse,
Perchè, lasciato il guerreggiar, qua vieni?320
Ohimè! per certo i detestati Achei
Son già sotto alle mura, e te qui spinge
Religïoso zelo ad innalzare
Là su la rocca le pie mani a Giove.
Ma deh! rimanti alquanto, ond’io d’un dolce325
Vino la spuma da libar ti rechi
Primamente al gran Giove e agli altri Eterni,
Indi a rifar le tue, se ne berai,
Esauste forze. Di guerrier già stanco
Rinfranca Bacco il core, e te pugnante330
Per la tua patria la fatica oppresse.
   No, non recarmi, veneranda madre,
Dolce vino verun, rispose Ettorre,
Ch’egli scemar potría mie forze, e in petto
Addormentarmi la natía virtude.335
Aggiungi che libar non oso a Giove
Pria che di divo fiume onda mi lavi;
Nè certo lice colle man di polve
Lorde e di sangue offerir voti al sommo
De’ nembi adunator. Ma tu di Palla340
Predatrice t’invía deh! tosto al tempio,
E récavi i profumi accompagnata
Dalle auguste matrone, e qual nell’arca
Peplo ti serbi più leggiadro e caro,
Prendilo, e umíle della Diva il poni345
Su le sacre ginocchia, e sei le vóta
Giovenche e sei di collo ancor non tocco
Se la cittade e le consorti e i figli
Commiserando, dall’iliache mura
Allontana il feroce Dïomede,350
Artefice di fuga e di spavento.