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Che gli orli attorna dell’immenso scudo,
La cervice gli batte ed il tallone.
   Di duellar bramosi allor nel mezzo150
Dell’un campo e dell’altro appresentârsi
Glauco, prole d’Ippoloco, e il Tidíde.
Come al tratto dell’armi ambo fur giunti,
Primo il Tidíde favellò: Guerriero,
Chi se’ tu? Non ti vidi unqua ne’ campi155
Della gloria finor. Ma tu d’ardire
Ogni altro avanzi se aspettar non temi
La mia lancia. È figliuol d’un infelice
Chi fassi incontro al mio valor. Se poi
Tu se’ qualche Immortal, non io per certo160
Co’ numi pugnerò; chè lunghi giorni
Nè pur non visse di Drïante il forte
Figlio Licurgo che agli Dei fe’ guerra.
Su pel sacro Nisseio egli di Bacco
Le nudrici inseguía. Dal rio percosse165
Con pungolo crudel gittaro i tirsi
Tutte insieme, e fuggîr: fuggì lo stesso
Bacco, e nel mar s’ascose, ove del fero
Minacciar di Licurgo paventoso
Teti l’accolse. Ma sdegnârsi i numi170
Con quel superbo. Della luce il caro
Raggio gli tolse di Saturno il figlio,
E detestato dagli Eterni tutti
Breve vita egli visse. All’armi io dunque
Non verrò con gli Dei. Ma se terreno175
Cibo ti nutre, accóstati; e più presto
Qui della morte toccherai le mete.
   E d’Ippoloco a lui l’inclito figlio:
Magnanimo Tidíde, a che dimandi
Il mio lignaggio? Quale delle foglie,180
Tale è la stirpe degli umani. Il vento