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capitolo decimosecondo. | 71 |
quale io intendeva d’imprimere nella mente della moglie un gran rispetto per la sottigliezza del mio ingegno: perchè se le fanciulle ottenevano l’intento, eccoli avverato un voto felice; ma se riusciva qualche sciagura, lo si poteva guardare come una profezia. Tutta questa conversazione però non fu che il preludio d’un altro di lei disegno, di cui già mi sentiva correr nell’animo la paura. Dovendo ora noi nel mondo camminare col capo un pocolino più alto, si tramava niente meno che di vendere a un mercato prossimo il puledro oramai invecchiato, e comperare in vece sua un cavallo che fosse da sella a un tempo e da timone, e comparisse non male quando si andava in chiesa o a far visite. A prima giunta io mi vi opposi gagliardamente: ma la parte contraria era gagliarda anch’essa oltre misura; e quanto più io infievoliva, ella più rizzava la cresta, sicchè in ultimo fu forza dargliela vinta.
Cadendo il dì vegnente la fiera, voleva intervenirvi io stesso; ma mia moglie mi cacciò nel capo ch’io avessi una infreddatura, e non vi fu verso ch’ella mi lasciasse uscir di casa; dicendo che Mosè era un ragazzo accortissimo, che in comperare e vendere ei stava sul vantaggio mai sempre, che le nostre migliori contrattazioni erano le sue perchè egli sapeva in buon’ora porre il prezzo alto, poi scemarlo, e così nel comperare tenere a bada finchè facesse util mercato.
Teneva io pure gran conto del buon senno di mio figliuolo, e volentieri gli affidai questa incumbenza. La mattina appresso, adunque, vidi le sorelle tutte intente in allestire Mosè per la fiera, acconciargli il capo, spazzolargli le fibbie, e guernirgli di spilletti il cappello. Liscio ch’egli fu ed in punto, lo vedemmo festosamente salire sul puledro con una sportella davanti nella quale doveva riportarci drogherie. Vestiva un abito di panno così detto folgore e tuono, che quantunque accorciato assai, non pareva poi tanto sdrucito da lo si dovere dimettere. Il farsetto era verdegiallo, e le sorelle gli avevano annodata la