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capitolo quarto. | 34 |
La piccola repubblica, della quale era io il legislatore, si governava di tal maniera. Allo spuntar del sole convenivamo tutti nella camera comune, ove la servente ci aveva già preparato il fuoco acceso. Quivi ci salutavamo a vicenda con adatte accoglienze, avendo io sempre stimato di dover mantenere in uso certe pratiche di bella creanza, senza delle quali la troppa libertà rovina l’amicizia; poi ciascuno si prostrava innanzi a quell’Ente da cui ci era accordato un altro giorno di vita. Compiuto quest’atto di dovere, io me ne usciva per le mie faccende insieme col mio figliuolo, intanto che mia moglie e le fanciulle apprestavano la colazione, la quale era sempre in pronto a certo momento determinato. Una mezz’ora per quella, siccome un’ora pel pranzo si consumava ogni dì; ed erano conditi quegli istanti d’una innocente allegria tra le donne, e di dialoghi filosofici tra me e ’l mio figliuolo.
Noi uscivamo di letto al sorgere del sole, però i nostri lavori non erano mai protratti oltre il di lui tramontare; e la sera in su l’abbuiarsi ritornavamo alla famiglia che ci aspettava, e la quale aveva per accoglierci preparato sempre buon cuore e allegro fuoco. Alcuna volta non ci mancava altra compagnia, essendo tratto tratto visitati dal castaldo Flamborugh, nostro vicino e ciarliero oltre modo, e dal cieco zampognatore, venuti a farci brindisi col nostro vino d’uva spina, del quale non avevamo perduta la ricetta nè ’l grido. Per mille versi quella buona gente ci divertiva ottimamente, perchè spesso suonando l’uno la cornamusa, l’altro cantava alcuna lusinghiera ballata, come L’ultimo addio di Giannotto Armstrong o La crudeltà di Barbara Allen. Si chiudeva la serata col leggere che facevano i miei ragazzi le lezioni del giorno, come aveano già fatto la mattina; e chi meglio e più chiaramente leggeva, veniva premiato con un mezzo soldo da porre nel borsellino de’ poveri la domenica; la quale venuta, tutte le mie leggi suntuarie non valevano ad impedire che non fosse giornata di gran gala.