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capitolo trentesimoprimo. 213

mia moglie stampò baci affettuosissimi in bocca alla fanciulla, congratulandosi seco lei dell’essere ella diventata (per usare le sue parole) una femmina onesta. Poi Sofia e Mosè imitarono la loro madre; e da ultimo egli pure il nostro benefattore Jenkinson domandò che non fosse negato l’uguale onore anche a lui. Pareva allora che la nostra contentezza non potesse andare più in là. E ’l signor Guglielmo, di cui la maggiore soddisfazione era riposta nel fare altrui del bene, girava attorno lo sguardo con una cert’aria serena al par del sole, e non vedeva che aspetti gioviali e ridenti. Sola la Sofia non sembrava, per cagioni a noi ignote, appieno appagata di quella comune ilarità. “M’è avviso,” disse il signor Guglielmo sogghignando, che tutti, fuori ch’uno o due, siano compiutamente ora felici, e a me non resta che di adempire un dovere di giustizia. O buon Primrose, tu senti di quanto noi dobbiamo esser grati al signor Jenkinson per lo zelo con cui si adoperò nella scoperta d’uno scellerato; e guiderdone entrambi noi gliene vogliamo dare. Però madamigella Sofia farallo per certo felice; ed io doterolla in cinquecento lire, sicchè potranno menare una vita agiata. Vieni, o Sofia; che te ne pare egli di questo mio accomodamento? Vi consenti tu?”

La povera fanciulla a tale proposta odiosa cadde mezzo svenuta in braccio alla madre; e con debile voce, “lo sposarlo?” disse; “non sarà mai, no.”

“Che di’ tu?” proseguì il signor Guglielmo. “Non vuoi il signor Jenkinson, il tuo benefattore, un bel giovanotto con cinquecento lire per tua dote?”

“Signor mio,” rispose la figliuola, a cui il dolore quasi toglieva la favella; “deh! per pietà desistete dal vostro pensiero, e non vogliate opprimermi con sì cruda sciagura.”

“Videsi mai ostinazione cotanta! Osi tu rifiutare, o fanciulla, un uomo a cui tutta la tua famiglia debb’essere grata d’infiniti favori? uno che ti conservò la sorella, uno