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stupiva il mio figliuolo della condescendenza di lei, che quasi verace non la credeva; e manifestolle i suoi dubbi e come quella le paresse troppa felicità nè da lui meritata.

“No,” diss’ella, “fui ingannata, fui iniquamente tradita. Che s’altro fosse stato, avrei io violati i miei voti? Già da gran pezza tu sai quanta amicizia io ho teco annodata. Ma deh! perdona ogni mio errore: e come già un tempo io ti giurai costanza, solennemente or qui ti ripeto que’ giuramenti; e sta’ certo che se Arabella non può essere tua, non sarà d’altri mai.”

“E d’altri tu non sarai,” gridò il signor Guglielmo, “se d’alcuna stima io son degno presso del padre tuo.”

Bastarono queste parole perchè Mosè, l’altro mio figliuolo, corresse precipitoso all’osteria ov’era il signor Wilmot, e l’informasse d’ogni cosa. Ma lo scudiero in quel mentre vedutosi disperato interamente, nè dell’adulazione o degl’inganni potersi più giovare, fece pensiero che l’unico mezzo che gli rimanesse fosse di cavarsi del tutto la visiera ed opporsi a faccia aperta a’ suoi persecutori. Però, posta giù la paura dello zio, e nudatosi d’ogni pudore, mostrossi quant’egli era consumato guidone; e volgendosi al signor Guglielmo usò a lui queste parole: “Niuna giustizia poss’io qui aspettare che mi si faccia; ma per Dio! io la voglio ad ogni patto. Voi dovete sapere, o signore, ch’io non sono più quel poverello che debba sospirare i vostri favori, e che di loro me ne fo beffe del tutto. Niuna cosa del mondo può tormi le ricchezze di madamigella Wilmot, le quali, mercè della paterna avarizia, sono larghe assai. Il contratto per cui diventano mie è sottoscritto, è in mia mano; e nol mi si strappa per Dio! Non la persona, ma la dete di lei mi trasse a volgere l’animo a codesti sponsali: a me l’una, vada l’altra a chi se la brama.”

Questa fu cosa inaspettata e terribile: e il signor Guglielmo ch’era stato egli medesimo messo mezzano al vecchio Wilmot per la stipulazione del contratto di matri-