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capitolo trentesimo. 193

me vogliosissimo di sollazzo ch’egli era in quel giorno. Nè guari andò che lo scalco comparve ad assettare il banchetto, prestataci a tale uopo una tavola dal carceriere, il quale assiduo mostravasi e diligente oltre l’usato. E furono poscia su quella disposti i vasi del vino e due gran piatti coperti di squisite vivande.

Non aveva per ancora la mia figliuola udito parlare dello stato tristissimo del povero fratello di lei; nè a noi pareva di doverle con tale racconto amareggiare la giocondità. Ma invano studiava io di fingere allegrezza. Le sciagure del mio figliuolo mi passavano l’anima in sul vivo; e avvegnachè io desiderassi dissimulare lo strabocchevole affanno del cuore, fui costretto nondimeno a scoppiare in lagrime, e dire i suoi guai, e pregare che fosse anche a lui conceduto di sedere a quella mensa, e partecipare di quella poca ora di consolazione. Cessato lo sbigottimento prodotto dalle mie parole ne’ commensali, chiesi che fosse aminesso anche il signor Jenkinson; e ’l carceriere vi acconsentì con inusitata sommissione. All’udire lo strepitar dei ferri scossi dal mio figliuolo nel salire a noi, balzò la sorella impaziente ad incontrarlo. E intanto domandò a me il signor Burchell se il nome di lui fosse Giorgio; e rispondendo io che appunto, e’ si tacque. Venuto allora dentro il mio figliuolo, con isguardi di maraviglia pieni e di riverenza affissò il signor Burchell.

“Vieni, figliuolo mio, diss’io; perocchè la Providenza si degna di accordare a noi caduti in fondo della miseria un breve riposo, una tregua alcuna alle pene. La tua sorella è a noi renduta; e vedine il liberatore. Per opera di quest’uomo dabbene una figliuola mi resta. Però stendigli, o Giorgio, la destra in segno d’amicizia; chè ben gli si conviene la nostra vivissima gratitudine.”

Pareva che il mio figliuolo non tenesse conto veruno de’ miei detti; e se ne stava indietro in contegnoso atto, pieno di rispetto.

“Fratello mio,” esclamò la Sofia; “perchè non rendi