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capitolo ventesimottavo. | 173 |
pria? Datti pace una volta, e spera un più felice avvenire.”
“Padre mio, tu sempre fosti meco pietoso. Ma delle mie pene questa è la maggiore, il non avere io speranza di poter mai con te dividere la felicità che mi prometti. Non v’è più in terra felicità per me; e sospiro il momento in cui sarò liberata da questo mondo ove tutto è sventura per la tua figliuola. In vero, io desidero che tu ti sottometta alla fine al signor Thornbill; e con ciò forse lo indurrai a pietà e il saperti io meno sciagurato, o padre mio, mi farebbe morire consolata.”
“No, carissima, non sarà mai ch’io m’induca a confessare essere la figliuola mia una femmina prostituita; perchè, quantunque abbominevole possa parere al mondo il tuo fallo, io non a cuor perverso, ma a credulità tua troppa l’attribuisco. Nè credere, Olivia mia, ch’io sia infelice in questo luogo per quanto orrendo tu ’l vegga: e sta’ certa che finchè tu, vivendo, farai beati i miei giorni, io non acconsentirò mai che colui ti renda più dolente collo sposarsi ad un’altra donna.”
Partita la mia figliuola, il mio compagno di carcere stato presente a quell’abboccamento, con alquante ragioni biasimò la mia ostinazione nel non volere con poche umili parole guadagnarmi la libertà. Disse non essere da sacrificarsi il restante della famiglia alla pace di un solo individuo, e di quello appunto che mi aveva offeso; e non sapere egli con quanto senno io m’opponessi all’unione dei sessi, rifiutando di prestare il mio assenso ad un matrimonio cui io non poteva in conto veruno impedire, comecchè m’ingegnassi di farlo malauguroso.
“Tu non conosci,” diss’io, “l’uomo che ci opprime. Ma so ben io che qualunque sommessione dal canto mio non mi procaccerebbe nè un’ora di libertà; poichè in questa camera istessa ov’io parlo un suo debitore, siccome a me vien narrato, morì d’inedia l’anno scorso. Ma s’anche il soggettarmi a’ suoi voleri e l’approvar le sue nozze