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capitolo ventesimosecondo. 143

assumere coraggio onde sostenere la presenza della offesa madre. Però dall’aspetto delle campagne ridenti io traeva argomento per dimostrarle come il cielo fosse benigno con noi, più di quanto nol siamo noi co’ nostri simili; e come poche paressero le disgrazie operate dalla natura, a paragone di quelle che fabbrichiamo a noi stessi. L’accertava ch’ella non avrebbe mai scorto cambiamento alcuno nella mia amorevolezza, e che, finchè io fossi vissuto, non le sarebbe venuto meno nè consiglio nè appoggio mai. E l’apparecchiava a sopportare le censure del mondo; mostrandole i libri come dolcissimi compagni e pietosi dell’infelice, li quali, se non possono farci cara la vita, c’insegnano almanco a tollerarla.

Il cavallo noleggiato che ci portava doveva essere da me restituito quella sera ad un’osteria lontana intorno a cinque miglia della casa; e desideroso io di preparare la famiglia a ben accogliere la figliuola, parvemi di doverla lasciare per quella notte all’osteria, e di venirla poi a prendere la mattina per tempo del giorno seguente insieme colla sorella Sofia. Era già oscuro prima che noi giugnessimo alla meta; ma non pertanto fatta apprestare una camera decente, e comandato all’ostessa di somministrare una buona cena alla Livia, questa baciai d’un tenerissimo bacio, e presi il cammino vêr casa mia. Quanto più mi avvicinava io a quel pacifico casolare, tanto più il cuor mi battea d’inusitate e gratissime sensazioni. Come un uccello che ritorna al nido da cui lo spavento lo aveva fatto fuggire, io correva inverso i miei figliuoli; ma gli affetti mi precedevano assai del piede più lesti; e la mia mente già si aggirava ansia intorno all’umile focolare, e n’era incantata. Però andava riandando le parole di gioia ch’io avrei dette, anticipando le accoglienze che mi si sarebbono fatte; e già godeva degli abbracciamenti teneri di mia moglie, e sogghignava della festoccia de’ miei bambini. Parevano lenti i miei passi al mio desiderio, quantunque affrettati: avanzava la notte; i lavo-