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capitolo ventesimoprimo. 141


“Ahi! che se tu giurasti, nè posso nè voglio che tu ti renda spergiura. Ancora che ai cittadini tutti giovasse di manifestare quel furfante, tu nol devi in conto veruno accusare. In tutte le umane instituzioni non è vietato il procacciarsi con poco male il maggior bene; e i politici per assicurare un regno cedono una provincia; e i medici tagliano un membro per conservare il corpo. Ma la religione non ha altre leggi che quella scritta ed eterna: non far male mai. E giustissima è la sentenza di una tal legge; perchè, altrimenti commettendo noi poco male onde arrivare ad un gran bene, opereremmo delitti certi per incerte utilità. E poniamo anche che di conseguenza dal poco male derivasse vera utilità; pure lo spazio di tempo tra ’l poco delitto e ’l conseguimento dell’utile, sarebbe fuor d’ogni dubbio peccaminoso. E chi ci fa sicuri che in quello spazio non voglia Iddio chiamarci a giudizio e chiudere per noi eternamente il libro delle umane azioni? Ma troppo io t’interruppi, o mia Livia. Su via, ripiglia le tue parole.”

“La stessa mattina mi venne veduta la poca speranza ch’io doveva riporre nella sincerità di colui; perchè subito egli mi condusse a due altre infelici donne da lui ingannate al pari di me, ma che vivevano contente della loro prostituzione. Io amavalo teneramente, nè sapeva tollerare quelle rivali, e tentava di sdimenticare nel tumulto dei piaceri l’idea della mia infamia. Però nelle danze, negli abbigliamenti, nelle ciarle cercava felicità, ma sempre infelice. Coloro che venivano a visitarci lodavano ogni momento i miei vezzi, le mie maniere; e ciò più mi aggravava la malinconia, sentendo io d’avere perduto il più bel fiore di mia bellezza. Ogni giorno cresceva in me la taciturnità, in lui l’insolenza: finchè poi quel mostro d’infamia ebbe l’impudenza di esibirmi ad un giovane baronetto suo amico. Non ti so dire quanto mi accorasse la ingratitudine di lui; e furibonda risposi a una tale proposta col chiedere di partire. Imperò mi pose in