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capitolo ventesimoprimo. | 139 |
tu ti penta del fallo, e saremo ancora felici; vedremo di bel nuovo de’ giorni ridenti, o mia Olivia.” — “Mai, mai più. Il restante della mia vita tapina sarà infamia al di fuori e vergogna in casa. Ma, padre mio, e perchè se’ tu pallido più dell’usato? Tanto dunque travagliavati una vil creatura? E tu sì savio di mente potesti punire su te le colpe della tua infame figliuola?” — “La mia saviezza, o donna...” — “O padre mio, perchè lacerarmi l’anima con quel freddo nome? Io donna? Non son io dunque più la tua figliuola?” — “Amata mia Olivia, perdona; io voleva dirti che la saviezza è riparo, comecchè certo, pur tardo assai contro gli affanni.”
Venne allora l’ostessa a domandare se io bramassi d’avere una camera più pulita di quella; al che acconsentendo io, ella ci condusse altrove in luogo ove liberamente era dato il conversare. Riacquistata a poco a poco alquanta calma allo spirito, non potei tenermi d’inchiedere la Olivia del come ella si fosse ridotta a così tristo partito. “Quel vile,” diss’ella, “fino dal primo giorno che mi ebbe veduta mi diede di oneste impromesse, quantunque in segreto sempre.”
“Vile oltre ogni vile,” diss’io; “nè so comprendere come un uomo fornito d’ingegno e d’apparente onestà, quale sembrava il signor Burchell, abbia potuto farsi reo d’una tanto deliberata ribalderia, ed introdursi così in una famiglia per rovinarla.”
“Ah! troppo, o padre mio, tu vai errato. Mai, no, mai Burchell tentò d’ingannarmi; ch’egli anzi coglieva ogni occasione per ammonirmi privatamente contro le frodi del signor Thornhill, il quale io alla fine ben ravvisai più pessimo di quanto non lo dicesse Burchell.”
“Che di’ tu mai? Il signor Thornhill, colui...?”
“Egli sì; Thornhill fu che mi sedusse, che adoperò quelle due da lui dette gentildonne, ma le quali non erano che due scellerate scanfarde da postribolo, prive di educazione e di pietà, per allettar noi e trarci a Londra. Le