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capitolo decimosettimo. 99

scere nello scudiero l’ansietà; ma l’ambascia vera d’Olivia mi accorava. Combattuta ella a vicenda dalla saviezza e dalla passione, sentiva a poco a poco illanguidirsi la sua tanta vivacità, e cercava disiosamente la solitudine per ivi lagrimare a sua posta. Passò una settimana, nè Thornhill tentava di stornare gli sponsali: la settimana appresso venne egli assiduamente; ma nè una parola per aprirci il suo cuore. Dopo quindici giorni troncò del tutto le visite; e la mia figliuola anzi che dare a vedere alcun segno di rammarichío, ritenne un certo piglio tranquillo e pensieroso ch’io ascrissi a rassegnazione. In quanto a me, non mi capiva in petto la gioia in pensando che alla mia figliuola non sarebbe mancato nè pane nè pace mai in casa Williams; e ogni tratto la lodava di aver preferita la vera felicità all’ostentazione.

Conchiusa ogni cosa, non erano omai lontane che di quattro giorni le nozze: quando una sera la mia famigliuola ragunata intorno a un bel fuoco se ne stava favoleggiando dei casi passati e de’ futuri, e mescendo al novellare festivi motti e sogghigni; ed io rivoltomi a Mosè domandava che gli paresse di quello sponsalizio, invitando lui a dir chiaramente il suo senno.

“Padre mio,” rispose egli, “le cose vanno benissimo; ed io pensava ora appunto che quando la Livia sarà maritata al castaldo Williams la ci presterà gratuitamente il torcolo pel sidro e i tini per la cervogia.”

“Bene sta, buon ragazzo; e il suo marito per soprammercato ci rallegrerà spippolando la canzone della Morte e Madonna.”

“Egli l’ha insegnata al nostro Ricciardetto; e poverino s’ingegna d’imitarlo discretamente.”

“E dov’è quel bambolo mio? Venga venga, e ce la canti senza soggezione.”

“Ricciardetto se n’è ito là colla Livia,” disse Guglielmino; ma io ho imparati ancor io due canti dal signor Williams, e li gorgheggerò volentieri pel mio caro padre.