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le fece vedere in una confusa visione la testa di Paolo, china sul viso morto del padre con angoscia silenziosa e profonda. E anche negli occhi di lui passava il mistero della morte.
Si sarebbe chinato così anche sulla sua testina, quando riposerebbe, bianca e muta per sempre, su quello stesso ghiaccio? Avrebbe sofferto egli? Più di sua madre? Più di sua sorella, di suo fratello?
Le parve di vederlo, e una voce le diceva, dentro, con angoscia suprema e ad intervalli: — Elena! Elena mia!
E senza avvedersene, bagnò di lagrime tutta la lettera, l’ultima lettera di Paolo, amando e benedicendo.
Ma egli, per otto, per dieci, per quindici giorni, attese invano la risposta, e siccome nella sua ultima lettera Elena gli aveva scritto di sentirsi male, fu preso da una inquietudine triste e nervosa. Aveva forse peggiorato la sua diletta bambina? Cento altri dubbi tormentosi lo investirono, ma la fede suprema che egli riponeva in Elena dava la vittoria al primo timore.
Cominciò dieci lettere, ma giunto alla terza riga di ognuna si fermava, assorto in un pensiero grave e dolce che da due settimane lo dominava. Partire. Ritornare laggiù nella terra triste e misteriosa, che lo richiamava con voce solenne.
Era una voce che lo chiamava da molto tempo, ma giammai l’aveva sentita più forte e imperiosa.