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la figura di Carta-Selix, giovane, forte, libero e amante le si ergeva vicina e le impediva d’immergersi ancora nella visione lontana che l’ammaliava. E questa visione, la figura di Paolo, s’era allontanata quasi dissolvendosi in un vaporoso fantasma, senza però scomparire mai del tutto.

Ma dopo pochi giorni, presa l’abitudine di veder Giovanni Carta-Selix, di sentirlo salire le scale, entrare famigliarmente, domandarle come stava, sedersi, mettersi a discorrere di cose inutili, talvolta frivole e spiritose e superficiali, Elena fu a suo riguardo ripresa da una profonda indifferenza. Anzi le parve di non averlo mal amato, giacchè non era quell’uomo giovane ancora, ma dagli occhi stanchi, dalla fisionomia grave, quel magistrato che nell’intimità della conversazione conservava un po’ della posa che assumeva nelle sue funzioni.

Il giovane che attraversava la piccola strada rasente al giardino non era quello; era timido, ma sincero e poetico, e non parlava come ora parlava Carta-Selix il giudice istruttore.

E la sua figura a sua volta si allontanava, si dissolveva, sfumava del tutto, mentre quella di Paolo si ricomponeva e tornava vicina, nell’onnipossente e ineffabile e indistruttibile grandezza del sogno.