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mentava la servetta con la sua supposizione, e, quel che più a lei dispiaceva, gliela esprimeva davanti alla gente.
— Non fa nulla, non fa nulla! — strillava lei adirata — se ho le gambe di rana: già son le mie, non son le vostre; importatevene, zio sciocco!
Gli mancava di rispetto, e avrebbe dato dieci anni di vita per far cessare l’orribile calunnia.
Anche quella sera Salvatore, a cena, aveva fatto allusione a quel fatto; ella se ne sentiva profondamente triste, e lavando i piatti due grosse lagrime le eran cadute entro il paiolino della risciacquatura.
— Cicchedda — le disse Costanza — mi farai un piacere?
— Eia! (Sì!) — affermò ella, aprendo i suoi grandi occhi sonnolenti e velati.
Agada cessò un momento di filare: cosa era il piacere che Costanza poteva chieder a quella sciocca?
— Sta attenta — disse Costanza. — Tu sei nipote di Marta Fele. Marta Fele, di Oliena, indovina ogni cosa, tu l’hai detto cento volte.
— Eia! — ripetè vivamente Cicchedda, col viso in su. Una ciocca di capelli giallastri che le pioveva sulla tempia destra, al nome di Marta Fele ebbe un fremito, si spostò e venne ad ombreggiarle tutta la fronte.
Perchè Marta era una donna meravigliosa, che prediceva l’avvenire, e spiegava gli enigmi più