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— Alessio! tu sei ferito!
Alessio ferito? Cicchedda si slanciò nel corlile, l’attraversò correndo ed entrò in cucina dietro Costanza. Ma che le importava di Costanza o degli altri se Alessio era ferito? Poteva ricordarsi d’altri che di lui? Sulle prime lo vide confusamente, con una gamba fasciata di bende macchiate di sangue; poi lo guardò in viso; viso grigio e disfatto. Ed emise un grido.
Egli sentì tant’angoscia in questo grido che ne sussultò nelle più intime fibre; s’intenerì, e dimenticando anch’egli che Costanza era presente, disse a Cicchedda con dolcezza:
— Non è nulla, non è nulla: non temere!...
— Cos’ha quella matta? Perchè grida così? — domandò Salvatore Brindis, levandosi il fucile. E imitò con beffe la voce di Alessio: — Non è nulla, non è nulla, non temere, gioia mia; è un rovo che ci ha graffiato le gambe. — E rise.
Dalla gaiezza di lui Agada capì che s’era fatta buona impresa, e il cuore le si alleggerì; ma il viso di Costanza si fece buio, e fu tale la sensazione odiosa che provò nel veder confermati i suoi dubbi, che le ginocchia le tremarono.
— C’era gran bisogno che li fossi levata! — gridò a Cicchedda con ironia. — Va, e rimetti i cavalli nella stalla!
L’altra non rispose, prese il lume, uscì, e pianse amare lagrime tirando per la briglia la cavalla d’Alessio.