Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 208 — |
non aveva più il coraggio di ridere vedendosi far dei capitomboli, ma sudava come se fosse in un meriggio di agosto, e gli venivano davvero le vertigini. Non distingueva più nulla in tutta quella vanescente visione bianca; solo la macchia nera di Alessio che gli apriva la strada; una macchia nera che si allungava, si stendeva, sfumava in grigio e spariva a intervalli in quel biancore vertiginoso.
Sibili acuti, urli, gemiti, scrosci, rumori di cascate, di torrenti, di voci umane e infernali vibravano per la montagna; e tutto, cielo, terra, monti ed alberi si confondevano in una nuvola bianca, in un soffio potente e misterioso.
Ma un forte abbaiare di cani, spinto dal vento, ebbe il potere di disfare un poco il malefizio; zio Salvatore chiuse gli occhi, e riaprendoli distinse un muro coperto di neve, vide un foro luminoso e s’accorse che erano giunti all’ovile. I cani abbaiavano furiosamente; Alessio gettò un grido e tacquero.
Nella capanna, circondata di neve e addossata a una rupe, c’era un ragazzo, fratello d’uno dei pastori, ancora mezzo inebetito per lo spavento. Era un ragazzo sudicio, col volto così nero, dalle labbra grosse e il naso camuso che sembrava un moro; quella notte poi, nello stato in cui si trovava, alla luce del fuoco acceso sulle pietre, era davvero spaventoso. Sembrava che il ragazzo