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Domenico s’impaurì e pianse più piano, gemendo sconsolatamente e dicendo con disperazione:
— Cicchedda.... dov’è Cicchedda?...
Ella, fuori, ne ebbe una gran pietà, ma non entrò ancora perchè Costanza la imprecava.
— Se l’ha presa la madre dei venti, perch’è cattiva, perch’è maligna, miserabile che altra non è!...
C’era tant’odio e disprezzo in queste parole, con le quali forse voleva suggestionare il bimbo, che Cicchedda coi denti stretti per la rabbia, entrò.
— Sono qui! Sono qui, cuoricino mio! — esclamò, contenendosi e correndo dal piccino, che le porse le sue graziose braccine, e, attaccandosele tenacemente al collo, col viso illuminato da un sorriso, si calmò sull’istante. Questa prova d’affetto calmò anche lei. Disse dolcemente:
— Dormi, dormi, cuoricino mio!
E Domenico ritirò le braccia e chiuse gli occhi.
Costanza s’allontanò dal letto piena di stizza; avrebbe volentieri strozzata la ragazza e dato un paio di schiaffi a Domenico, ma si contentò di ritornare in cucina borbottando. Zia Agada però, che diceva il Rosario, con le visioni dei ladri, e di suo marito, e di Alessio, e dei barracelli, e dei carabinieri, non le diede retta.
Domenico s’addormentò subito, e Cicchedda,