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rumore del vento, s’udì il pianto di Domenico come un gemito lontano.
— Domenico è sveglio! piange! — disse Agada sollevando il capo. Fu per alzarsi, ma Costanza disse:
— Vado io! — e corse.
Dopo un poco, siccome il pianto del bimbo non cessava, anche Cicchedda uscì; nel portico si fermò ad ascoltare, e sentì la voce di Costanza che cercava di chetare Domenico.
— Voglio Cicchedda.... voglio! — gridava il bimbo dimenandosi.
— Perchè la vuoi? — disse Costanza stizzita. — Non ci sono io, sciocco?
— Voglio Cicchedda, voglio Cicchedda! — ripetè Domenico fra i singhiozzi.
Cicchedda, nel suo dolore, sentì una tenerezza più che mai intensa per il piccino. Qualche tempo prima Costanza, per levarglielo dal letto, aveva fatto di tutto onde indurlo a dormire con lei o con zia Agada. Inutile. Domenico aveva fatto un chiasso infernale, e neppur ella, pregandolo di contentare Costanza, l’aveva vinto; nè si può dire la sua gioia segreta e l’ira della padroncina che cominciava ad involger nell’odio anche il bambino.
— Dormi! — gli disse ruvidamente, viste inutili le carezze. — Altrimenti chiamo i bobboi per rapirti. Non la senti la mamma dei venti, in cerca di bambini? Eh, apro la porta?