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L’osteria del Giuggiolo si trova a mezza scesa, tra certe case di contadini costruite lì a strapiombo e rinforzate con sproni di mattoni che le fasciano da tutte le parti. Alle finestre, c’erano i geranii e i garofani; e, sotto, un piazzaletto, un poco più alto della strada, con due acacie dinanzi alla porta; e, all’ombra dei loro rami, due tavolini di legno, imporriti, che avevano un odore come quello dei funghi.
Giulia e Ciambella, senza volere, si trovavano sempre a fianco; qualche passo innanzi alla zia; ma, allora, non si parlavano e si fermavano ad aspettarla. Sorridevano dell’aria che avevano e dei pensieri che si sentivano, come due giovinetti che fanno la prima volta all’amore. Il Crestai, rasato, aveva una ciarpa quasi nuova: il solino, è vero, sfilaccicato; ma uno migliore, nel canterano, non ce l’aveva e s’era scordato di comprarlo. Giulia s’era messa una rosa, e portava i guanti di filo bianco.
Quando si posero a sedere, facendosi portare il pane e il salame sopra un foglio di carta, con un litro di vino, il tipografo parlava ancora più a Fosca che alla ragazza. C’era un grande odore di sambuchi, che veniva dalla siepe della strada; e i loro fiori si sbriciolavano nella polvere. Le api ronzavano. Fosca chiese:
— Non vi date del tu? O che aspettate?