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gli facevano ira quelle cose che attraevan l’attenzione di lei; gli faceva ira Don Filippo del Monte che di tratto in tratto chinavasi verso di lei per mormorarle forse qualche malignità. Sopravvenne l’Ateleta. La quale era, come sempre, allegra. Il suo riso, tra i signori che già l’attorniavano, fece volgere vivamente Don Filippo.

— La Trinità è perfetta — egli disse, e si levò.

Andrea occupò subito la sedia, accanto alla Muti. Come gli giunse alle nari il profumo sottile delle viole, mormorò:

— Non sono quelle di ieri sera.

— No — fece Elena, freddamente.

Nella sua mobilità, ondeggiante e carezzante come l’onda, c’era sempre la minaccia del gelo inaspettato. Ella era soggetta a rigidità subitanee. Andrea tacque, non comprendendo.

— Si delibera! Si delibera! — gridava il perito.

Le cifre salivano. La gara era ardente intorno l’elmo d’Antonio del Pollajuolo. Anche il cavaliere Dàvila entrava in lizza. Pareva che a poco a poco l’aria si riscaldasse e che il desiderio di quelle cose belle e rare prendesse tutti li spiriti. La mania si propagava, come un contagio. In quell’anno, a Roma, l’amore del bibelot e del bric-à-brac era giunto all’eccesso; tutti i saloni della nobiltà e dell’alta borghesia erano ingombri di “curiosità„; ciascuna dama tagliava i cuscini del suo divano in una pianeta o in un piviale e metteva le sue rose in un vaso di farmacia umbro o in una coppa di calcedonio. I luoghi delle vendite publiche erano un ritrovo preferito; e le vendite erano frequentissime.