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tinuamente le vostre mani che giocavano con un’arma del suo paese destinata a tagliar le pagine d’un libro occidentale.

― Dianzi?

― Già, dianzi. Forse egli pensava: “Dolce cosa far hara-kiri con quella piccola sciabola ornata di crisantemi che paion fiorire dalla lacca e dal ferro al tocco delle sue dita!„

Ella non sorrise. Su la sua faccia era disceso un velo di tristezza e quasi di sofferenza; i suoi occhi parevano occupati da un’ombra più cupa, vagamente illuminati sotto la palpebra superiore, come dell’albor d’una lampada; un’espressione dolente le abbassava un poco gli angoli della bocca. Ella teneva il braccio destro abbandonato lungo la veste, reggendo nella mano il ventaglio e i guanti. Non porgeva più la mano ai salutatori e ai lusingatori; nè dava più ascolto ad alcuno.

― Che avete, ora? ― le chiese Andrea.

― Nulla. Bisogna ch’io vada dalla Van Huffel. Conducetemi a salutare Francesca; e poi accompagnatemi fin giù, alla mia carrozza.

Tornarono nel primo salone. Luigi Gullì, un giovine maestro venuto dalle natali Calabrie in cerca di fortuna, nero e crespo come un arabo, eseguiva con molta anima la sonata in do diesis minore di Ludovico Beethoven. La marchesa d’Ateleta, ch’era una sua proteggitrice, stava in piedi accanto al pianoforte, guardando la tastiera. A poco a poco la musica grave e soave prendeva tutti que’ leggeri spiriti ne’ suoi cerchi, come un gorgo tardo ma profondo.

― Beethoven ― disse Elena, con un accento