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piccolo di statura, giallognolo, con i pomelli sporgenti, con li occhi lunghi ed obliqui, venati di sangue, su cui le palpebre battevano di continuo. Aveva il corpo troppo grosso in paragon delle gambe troppo sottili; e camminava con le punte de’ piedi in dentro, come se una cintura gli stringesse forte le anche. Le falde della sua giubba erano troppo abondanti; i calzoni facevano una quantità di pieghe; la cravatta portava assai visibili i segni della mano inesperta. Egli pareva un daimio cavato fuori da una di quelle armature di ferro e di lacca che somiglian gusci di crostacei mostruosi e poi ficcato ne’ panni d’un tavoleggiante occidentale. Ma, pur nella sua goffagine, aveva un’espressione arguta, una specie di finezza ironica agli angoli della bocca.
A mezzo del salone, s’inchinò. Il gibus gli cadde di mano.
La baronessa d’Isola, una bionda piccoletta, dalla fronte tutta coperta di riccioli, graziosa e smorfiosa come una giovine bertuccia, disse con la sua voce acuta:
― Venite qua, Sakumi, qua, accanto a me!
Il cavaliere giapponese s’inoltrava reiterando i sorrisi e gli inchini.
― Vedremo stasera la principessa Issé? ― gli domandò Donna Francesca d’Ateleta, che piacevasi di raccogliere ne’ suoi saloni i più bizzarri esemplari delle colonie esotiche in Roma, per amor della varietà pittoresca.
L’asiatico parlava una lingua barbarica, appena intelligibile, mista d’inglese, di francese e d’italiano.