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quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto in torno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda “Che vorreste voi essere?„ egli aveva scritto “Principe romano.„
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home nel palazzo Zuccari, alla Trinità de’ Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l’ombra dell’obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova