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Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse e miste dell’architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola unica selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in un vapore argentino, lontanissimi, d’una immaterialità inesprimibile, simili forse ad orizzonti d’un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito la visione d’un qualche astro semispento abitato dai Mani. La Cupola di S. Pietro, luminosa d’un singolare azzurro metallico nell’azzurro dell’aria, giganteggiava prossima alla vista così che quasi pareva tangibile. E i due giovini Eroi cignígeni, bellissimi in quell’immenso candore come in un’apoteosi della loro origine, parevano gli immortali Genii di Roma vigilanti sul sonno della città sacra.
La carrozza rimase ferma d’innanzi alla reggia, lungo tempo. Di nuovo, il poeta seguiva il suo sogno inarrivabile. E Maria Ferres era vicina; forse anche vegliava, sognando; forse anche sentiva gravare sul cuore tutta la grandezza della notte e ne moriva d’angoscia; inutilmente.
La carrozza passò, piano, d’innanzi alla porta di Maria Ferres, ch’era chiusa, mentre in alto i vetri delle finestre rispecchiavano il plenilunio guardando gli orti pénsili aldobrandini ove gli alberi sorgevano, aerei prodigi. E il poeta gittò il fascio delle rose bianche su la neve, come un omaggio, d’innanzi alla porta di Maria Ferres.