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Elena allo Sperelli che le si era già seduto accanto, nel posto dell’amica.
― Far, far away...
― Su via, dite: a casa vostra?
E senza aspettare altra risposta, ella ordinò:
― Trinità de’ Monti, palazzo Zuccari.
Il servo richiuse lo sportello. La carrozza si mosse al trotto, voltò per la via Frattina, lasciando dietro di sè la folla, le grida, i romori.
― Oh, Elena, dopo tanto... ― proruppe Andrea, chinandosi a guardare la desiderata che s’era raccolta nell’ombra, in fondo, come schiva d’un contatto.
Il chiaror d’una vetrina, al passaggio, traversò l’ombra; ed egli vide che Elena sorrideva, bianca, d’un sorriso attirante.
Sempre così sorridendo, ella si tolse dal collo con un gesto agile il lungo boa di martora e lo gittò intorno al collo di lui, in guisa d’un laccio. Pareva facesse per gioco. Ma con quel morbido laccio, profumato del profumo medesimo che Andrea aveva sentito nella volpe azzurra, ella attirò il giovine; gli offerse le labbra, senza parlare.
Ambedue le bocche si ricordarono delle antiche mescolanze, di quelle congiunzioni terribili e soavi che duravano fino all’ambascia e davano al cuore la sensazione illusoria come d’un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro. La carrozza dalla via dei Due Macelli sali per la via del Tritone, voltò nella via Sistina, si fermò al palazzo Zuccari.