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sica passava su teste immobili, coperte di cappelli scuri, dilatandosi in una luce aurea, in una luce che fluiva dall’alto, temperata dalle tendine gialle, schiarita dalle pareti bianche e nude. E la vecchia sala dei Filarmonici, disadorna, dove appena rimaneva su l’egual candore qualche traccia d’un fregio e dove le misere portiere azzurre stavan per cadere, offriva imagine d’un luogo che fosse rimasto chiuso per un secolo e fosse stato riaperto proprio in quel giorno. Ma quel color di vecchiezza, quell’aria di povertà, quella nudità delle pareti aggiungevano non so che strano sapore allo squisito diletto dell’udizione; e il diletto pareva più segreto, più alto, più puro là dentro, per ragion d’un contrasto. Era il 2 di febbrajo, un mercoledì: in Montecitorio, il Parlamento disputava per il fatto di Dogali; le vie e le piazze prossime rigurgitavano di popolo e di soldati.
I ricordi musicali di Schifanoja sorsero nello spirito de’ due amanti; un riflesso di quell’autunno illuminò i loro pensieri. Al suono del Minuetto mendelssohniano si svolgeva la visione della villa maritima, della sala profumata dai giardini sottoposti, dove negli intercolunnii del vestibolo si levavano le cime dei cipressi, si scorgevano le vele di fiamma su un lembo di mare sereno.
Di tratto in tratto Andrea, chinandosi un poco verso la senese, le chiedeva piano:
― Che pensate?
Ella rispondeva con un sorriso così tenue ch’egli appena giungeva a coglierlo.
― Vi ricordate del 23 settembre? ― ella disse.