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esterne, come un vapore aereo dalle mutazioni dell’atmosfera. Esitava, prima di abbandonarvisi.
Andrea disse, piano, quasi umile:
― Va bene, così?
Ella gli sorrise, senza rispondere, poichè quelle parole le avevano dato un diletto indefinibile, quasi un tremolio di dolcezza a sommo del petto. Incominciò la sua opera delicata. Accese la lampada sotto il vaso dell’acqua; aprì la scatola di lacca, dov’era conservato il tè, e mise nella porcellana una quantità misurata d’aroma; poi preparò due tazze. I suoi gesti erano lenti e un poco irresoluti, come di chi operando abbia l’animo rivolto ad altro oggetto; le sue mani bianche e purissime avevano nel muoversi una leggerezza quasi di farfalle, non parendo toccare le cose ma appena sfiorarle; dai suoi gesti, dalle sue mani, da ogni lieve ondulamento del suo corpo usciva non so che tenue emanazion di piacere e andava a blandire il senso dell’amante.
Andrea, seduto da presso, la guardava con gli occhi un poco socchiusi, bevendo per le pupille il fascino voluttuoso che nasceva da lei. Era come se ogni moto divenisse per lui tangibile idealmente. Quale amante non ha provato questo inesprimibile gaudio, in cui par quasi che la potenza sensitiva del tatto si affini così da avere la sensazione senza la immediata materialità del contatto?
Ambedue tacevano. Elena s’era abbandonata sul cuscino: aspettava che l’acqua bollisse. Guardando la fiamma azzurra della lampada, toglieva dalle dita gli anelli, e se li rimetteva di