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bagliore indefinibile, simile un poco allo sguardo d’un maniaco. E vedeva anche quelle mani bianchicce, molli, sparse d’una peluria biondissima, che avevano qualche cosa d’inverecondo in ogni loro moto, nel prendere il binocolo, nello spiegare il fazzoletto, nel posarsi sul davanzale del palco, nello sfogliare il libretto dell’opera, in ogni loro moto: mani improntate di vizio, mani sádiche, poichè tali forse dovevan esser quelle di certi personaggi del Sade.

Egli vedeva quelle mani toccare la nudità di Elena, contaminare il corpo bellissimo, tentare una lascivia curiosa... Orrore!

Il supplizio era insostenibile. Egli si levò, di nuovo; andò alla finestra, l’aprì, rabbrividì all’aria fredda, si scosse. La Trinità de’ Monti splendeva nell’azzurro, con lineamenti netti, come intagliata in un marmo appena appena roseo. Roma, sotto, aveva un luccicor cristallino, come una città scavata in un ghiacciajo.

Quella quiete gelida e precisa gli ricondusse lo spirito alla realità, gli ridiede la conscienza vera del suo stato. Egli richiuse, e tornò a sedersi. L’enigma di Elena lo attrasse ancora; le interrogazioni gli risorsero in tumulto, lo incalzarono. Ma ebbe la forza di ordinarle, di coordinarle, di esaminarle a una a una, con una strana lucidità. Come più procedeva nell’analisi, più acquistava di lucidità; e di quella sua crudele psicologia godeva come d’una vendetta. Infine, gli pareva d’aver denudata un’anima, d’aver penetrato un mistero. Gli pareva, infine, di possedere Elena assai più a dentro che non al tempo dell’ebrezza.